sabato 2 marzo 2013

Storia del Rosario: fede, arte e devozione di Patrizia Fantera

Una, tra le numerose immagini d’arte sacra utilizzate all’interno della ”Lettera pastorale per la quaresima 2013” del nostro Vescovo Mons. Romano Rossi, è inserita a pag. 12 e la didascalia ci informa che il dipinto si trova a Faleria all’interno della Chiesa di San Giuliano; rappresenta la “ Madonna del Rosario” ed è databile tra fine XVI e inizio XVII sec. Ma quello presente a Faleria non è un soggetto raro: altri dipinti dedicati alla Madonna del Rosario sono presenti in molti paesi della nostra Diocesi e i più interessanti risalgono allo stesso periodo storico: sull’altare del Sacramento della Cattedrale di Civita Castellana, nel transetto di sinistra è posta la grande tavola della Madonna del Rosario e devoti del XVI sec., contornata da riquadri rappresentanti 15 Misteri. A Magliano Romano nella Chiesa di San Giovanni Battista due porzioni di affresco sono dedicati rispettivamente alla Madonna del Rosario e santi e ai misteri del Rosario databili al XVI sec.; a Morlupo sempre in una chiesa intitolata a San Giovanni Battista un dipinto ad olio dello stesso periodo ripropone quasi in modo identico lo stesso soggetto degli affreschi di Magliano; ad Orte nella Chiesa di Sant’Agostino, Giorgio da Orte (Giorgio Cenci) è l’autore della tavola su cui è dipinta la Madonna del Rosario con san Domenico, san Pio V, ed altri santi, risalente al 1571 circa. A Sant’Oreste nella chiesa di San Lorenzo, sul terzo altare di destra, è situato il dipinto Madonna del Rosario (datato al 1577 nel fastigio centrale) e contornata da 15 misteri; i santi Domenico e Santa Caterina sono aggiunte successive datate al 1703; a Rignano Flaminio nella Chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio, nella navata destra campeggia il dipinto della Madonna del Rosario con Santi, devoti e cherubini del XVI sec.; su tre lati sono posizionati i quindici riquadri dei Misteri. Il fiorire, in questo periodo, di committenze artistiche che hanno come soggetto la Madonna e il Rosario, Santi e Papi che ne hanno favorito la diffusione coincide senza dubbio con un momento particolarmente favorevole a questa pratica devozionale: nel 1569, infatti, con la bolla Consueverunt romani Pontificies di Pio V trovò la sua consacrazione ufficiale la storia del Rosario, che venne fissato in forme che sono sostanzialmente quelle attuali. Gregorio XIII suo successore nel 1573 istituì la festa del rosario inserendola nel calendario alla prima domenica di ottobre. Ma i momenti storici dello sviluppo del salterio della beatissima Vergine, che in origine prevedeva la ripetizione dell’orazione per 150 volte ed era, insieme al salterio dei Pater diffuso soprattutto tra i monaci illetterati, si possono comprendere nell’arco posto fra i secoli XII e XVI ; è all’inizio del 1100, infatti che si diffonde la pratica dell’Ave Maria che era però conosciuta e recitata solo nella sua parte evangelica contenente il saluto dell’Angelo e la benedizione di Elisabetta. A partire dal 1483 si diffonderà l’uso del “Santa Maria” . Nel secolo XIV il certosino Enrico di Kalkar operò una suddivisione del salterio delle Ave dividendo le 15 decine con la recita del Pater. Nello stesso periodo prenderà piede la tradizione, diffusa soprattutto da Alano de la Roche O.P. di attribuire a San Domenico l’istituzione del Rosario. Di sicuro si deve ai predicatori domenicani la diffusione di questa forma popolare di preghiera adottata come pratica all’interno delle numerose confraternite mariane fondate da San Pietro da Verona, discepolo di San Domenico. L’arricchimento delle litanie di Ave e Pater con la meditazione dei misteri avvenne tra il 1410 e il 1439 a cura di Domenico di Prussia, certosino di Colonia che proporrà ai fedeli un salterio composto da 50 Ave Maria. Al termine di ogni preghiera era aggiunto un riferimento ad un avvenimento evangelico. Fu poi Alano de la Roche che operando per la diffusione della pratica del Rosario tra le confraternite mariane da lui fondate, effettuò una ulteriore sistemazione della preghiera in senso moderno incorporando, in una triplice partitura la meditazione dei misteri: incarnazione, passione e morte, gloria di Cristo e di Maria; è da questo momento che il salterio comincia a chiamarsi “rosario della beata vergine Maria”. Dopo di lui il rosario venne semplificato ulteriormente ad opera del domenicano Alberto da Castello che nel 1521 scelse 15 misteri principali (ricordiamo che nella maggior parte dei nostri dipinti la tavola centrale è arricchita da 15 tavolette dei Misteri) da proporre alla meditazione dei devoti del rosario posizionandoli lungo la recita delle Ave. Nel frattempo il Rosario, dalle confraternite mariane si diffonderà tra tutto il popolo cristiano diventando un forma universale di preghiera. In tempi moderni, sono innumerevoli i documenti pontifici riguardanti il rosario. Paolo VI nella sua enciclica Christi Matri esplicitando il testo del Vaticano II in merito al valore della recita del Rosario ricorderà tra l’altro che è “una preghiera per ottenere la pace, presidio e alimento della fede”. Con Giovanni Paolo II verranno introdotte delle novità: il principale elemento nuovo è l’introduzione dei “misteri della luce” che contemplano gli episodi della vita pubblica di Gesù e cioè il Battesimo ricevuto da Giovanni, le nozze di Cana, l’annuncio del Regno di Dio, la Trasfigurazione e l’Eucarestia. Malgrado evidenti segni di disaffezione alla pratica del rosario a partire dagli anni 70-80 soprattutto tra le giovani generazioni Benedetto XVI dal suo osservatorio privilegiato ebbe modo di avvertire la rinascita più consapevole e sentita di questa pratica fra le donne e gli uomini di fede: “Il Santo Rosario non è una pratica del passato come orazione di altri tempi a cui pensare con nostalgia. Al contrario, il rosario sta sperimentando una nuova primavera… Il Rosario sta invece conoscendo quasi una nuova primavera. Questo è senz’altro uno dei segni più eloquenti dell’amore che le giovani generazioni nutrono per Gesù e per la Madre sua Maria”.

venerdì 21 marzo 2008

IL PERIODO CLASSICO a CIVITA CASTELLANA

Civita Castellana, l’antica Falerii, capitale della nazione falisca, vanta una storia trimillenaria.
Citata da autorevoli fonti classiche come le opere di Tito Livio, nelle quali ritroviamo notizie sulle continue guerre tra Falerii e Roma (dal 436 a.C al 241 a.C): la città resistette per secoli agli attacchi e soltanto nel fatidico 241 a.C., venne definitivamente sconfitta dai romani, che costrinsero gli abitanti a stabilirsi in una zona pianeggiante situata più a nord, dopo aver raso al suolo Falerii.
Ovidio, spettatore insieme alla moglie, ne descrive le splendide processioni del periodo autunnale che da Falerii Novi, attraverso la Via Velata, conducevano al Tempio di Giunone Curite: “quando insieme a mia moglie originaria della fertile terra falisca, costeggiammo le mura abbattute da te o Camillo, i sacerdoti preparavano sacre feste a Giunone...”.
Alla fine dell’Impero romano, vi fu un graduale abbandono di Falerii Novi (coinciso con le invasioni dei Goti e dei Longobardi) e un ritorno al sito dell’antica capitale dei falisci: il titolo di sede vescovile nel VI secolo è indicativo della continuità.
La storia dell’Ager Faliscus nell’Alto Medio Evo è collegata con le vicende che portarono alla nascita e formazione del Ducato romano, in quanto il vecchio impianto di Falerii Veteres venne ad assumere un ruolo fondamentale come punto nodale primario nel corridoio geografico instauratosi tra Roma e l’Esarcato di Ravenna. La difesa di tale corridoio aveva imposto tutta una serie di fortificazioni che, sotto la protezione dei Bizantini e dei Franchi avevano assicurato la vita del Ducato e di tutte le zone collegate con lo stesso. In un Privilegium dell’817 di Ludovico il Pio Imperatore, viene ricordato anche Castellum, l’odierna Civita Castellana, che faceva parte della Massa Castellania, già menzionata nell’anno 727 da Cencio Camerario.
La posizione di Castellum, crocevia e snodo viario tra la Tuscia e la Sabina, tra la Media Valle e Alta Valle del Tevere e quindi un valido baluardo per il Ducato romano e la stessa Roma, fu in virtù di questo ruolo che ebbe anche la sede vescovile alla fine del primo millennio, potendo fregiarsi del titolo di Civitas Castellana. prof.ssa Carlotta NELLI

venerdì 4 gennaio 2008

IL PERIODO MEDIOEVALE


Il Duecento, testimonia lo sviluppo di una comunità economicamente e culturalmente elevata. Nel 1210 fu costruito il Duomo a firma dei “doctissimi Cosmati”, per volontà della “Communitas” e nello stesso anno è testimoniata la presenza di un “Rector” liberamente eletto dalla cittadinanza, la cui nomina fu approvata da Innocenzo III. Nel 1252 avviene la conferma da parte di Innocenzo IV degli Statuti Comunali (la cui compilazione era già stata autorizzata nel 1229 ed affidata a magistrati e dotti cittadini del luogo). Dietro questi due avvenimenti possiamo intravedere una cittadina assai fiorente per il suo sviluppo demografico attestato dai consumi del sale, per la crescita dei commerci e dell’artigianato e dalle numerose classi sociali elencate nello stesso Statuto. E’ a questo periodo che risale, presumibilmente, la costruzione del palazzo della Corte che in seguito sarà inglobato nel palazzo Montalto Peretti.
La metà del XIV secolo fu un momento cruciale nel quale la città, approfittando dell’esilio avignonese dei papi, si rese autonoma dallo Stato pontificio. Nel 1354 sotto il parziale dominio dei Vico, nel momento in cui le truppe dell’Albornoz riuscirono a recuperare la città di Viterbo, Civita Castellana rimase in armi mal grado l’invito del legato pontificio, che richiedeva di sottomettersi. Il Cardinale Albornoz mandò una spedizione punitiva a cui la città resistette per almeno due anni; riuscì a farla capitolare solo dopo aver avvelenato le acque dei torrenti circostanti. 
prof.ssa Carlotta NELLI

IL RINASCIMENTO E IL GOVERNO DELLA CITTÀ (STUDIO INEDITO)

L’erezione del Forte Sangallo voluto da Papa Alessandro VI Borgia, e affidato all’architetto Antonio da Sangallo il vecchio a partire dal 1494-95, rivoluzionò l’assetto urbanistico interno di Civita Castellana. La conseguenza più importante fu rappresentata dall’abbandono della piazza del Duomo e la costituzione del nuovo polo nella piazza di Prato che divenne anche la piazza del Comune con la costruzione del palazzo comunale.
Le vicende storiche del periodo rinascimentale ci sono testimoniate da una cronaca locale intitolata Dell’Istoria di Civita Castellana per Francesco Pechinoli che scrisse intorno al 1560;
L’Istoria, divisa in due parti ci fornisce notizie sulle persone che ricoprivano i ruoli di governatore della città: Alessandro VI Borgia (1492-1503), immediatamente dopo la sua ascesa al soglio pontificio, diede a Cesare Borgia, detto il Valentino, il governo perpetuo della città.
La morte del pontefice Alessandro VI nell’estate del 1503 segnò anche il declino del figlio, che inviò soldati ad occupare Nepi e Civita Castellana: nell’Istoria si racconta come la popolazione resistette al tentativo del conte Oliva, inviato dal Valentino, non permettendo che conquistasse la fortezza.

Nel 1513 per la munificenza di Leone X (1513-1521) venne costruito il palazzo Comunale, come attestava un’ iscrizione posta nel fronte dell’edificio: LEONIS X PONT. MAXIM. IN VEIO LIBERALITATE. Egli diede il governo della città a Bernardo Dovizi da Bibiena.
Giulio de’ Medici governatore della città, diventato papa, con il nome di Clemente VII (1523-34), lasciò il governo della stessa al cardinale Giovanni Salviati, il quale rimase fino alla morte del pontefice. In questo periodo Civita Castellana si trova coinvolta nelle vicende del Sacco di Roma dovendo combattere contro le truppe dei lanzichenecchi, che avevano ottenuto dal papa un permesso per farsi consegnare la città e la rocca.
Alla morte di Clemente VII il suo successore, Paolo III Farnese (1534-1549), nominò governatore della città il nipote Alessandro Farnese:“...per speciale grazia del sommo Iddio, sortì per ottenere per governatore, anzi piuttosto per padre, e per protettore il nipote di Paolo de 30 anni.”
Sotto il pontificato di Giulio III del Monte(1550-1555) la città conobbe una forte carestia per la mancanza di grano. Il pontefice “per compiacere Balduino del Monte suo fratello”, rimosse il cardinale Farnese, assegnando la reggenza della città e della rocca a Rocco Galletti del Monte, che scelse come collaboratore il fratello Domenico.
Il pontefice successivo Paolo IV Carafa (1555-59), nomina governatore “secondo il solito” il cardinale Carlo Carafa, il 13 agosto 1555.
Un’ eccezione alla regola fu la nomina di Mario Arca avvenuta il 12 marzo 1559, che acquisì Civita Castellana in governo temporaneo per un breve periodo e fu in seguito sostituito, all’elezione di Pio IV (1560-65), con Carlo Borromeo.
A seguito dell’elezione di Gregorio XIII venne affidato il governo a Filippo Boncompagni dal 25 luglio 1577 e in secondo mandato il 3 aprile 1581.
Alle soglie dell’elezione pontificia di Felice Peretti il governo di Civita Castellana era ancora detenuto dal cardinale Boncompagni come risulta negli atti del 1586.
Anche Sisto V continua nella prassi di affidare il governo della città al proprio cardinale nipote: ne troviamo conferma negli atti notarili conservati presso l’Archivio di Stato di Viterbo. Alla morte di Sisto V, Clemente VIII Aldobrandini, nomina il cardinal nipote Pietro, governatore della città. 
prof.ssa Carlotta NELLI

mercoledì 2 gennaio 2008

Palazzo Montalto a Civita Castellana



La presenza della famiglia Peretti a Civita Castellana è ampiamente documentata dal grande palazzo Montalto eretto in via di Corte, che il Papa Sisto V al secolo Felice Peretti fece costruire presumibilmente nel 1589 anno della costruzione del Ponte Felice al Borghetto, un importante punto di snodo commerciale e viario che collegava lo stato pontificio con il mare Adriatico e la via per il Santuario di Loreto.
Il palazzo venne donato dal pontefice a suo nipote il cardinale Alessandro Damasceni Peretti, figlio della figlia di sua sorella, Camilla Peretti, importante
signora romana che acquisì il suo prestigio proprio grazie all’elezione del fratello, come d'altronde tutta la famiglia, diventando in poco tempo una delle personalità più influenti dei salotti romani.
Cosi come i grandi palazzi romani fatti costruire dal pontefice e dalla sua famiglia, anche il palazzo Montalto di Civita Castellana ricorda per la tipologia slanciata e le decorazioni caratterizzate dall’uso di stili tipici del primo cinquecento la figura dell’architetto Domenico Fontana, passato alla storia per aver innalzato gli obelischi di Roma. Il piano nobile del palazzo situato al primo piano, è costituito da un grande salone di rappresentanza affrescato con un fregio che percorre interamente la parete.
Non essendoci al momento documenti che ci confermano il periodo di realizzazione di questa decorazione, dobbiamo affidarci alla sua tipologia stilistica e ai soggetti rappresentati per la datazione.

Il fregio è costituito dal susseguirsi di paesaggi, putti e candelabre con grottesce ed allegorie di virtù. La particolarità più rilevante è data sia dagli stemmi cardinalizi di Alessandro Peretti, dipinti sui lati corti della stanza sia dei blasoni matrimoniali di suo fratello Michele e delle sue due sorelle, Flavia ed Orsina.
La presenza degli stemmi matrimoniali ci fornisce un termine post quem per la datazione del fregio che sicuramente venne eseguito non prima del 20 marzo 1589 giorno dei matrimoni di Flavia Peretti con il duca Virginio Orsini di Bracciano, individuato dallo stemma in fondo a sinistra guardando dalla porta d’ingresso, e di Felice Orsina con Marcantonio Colonna, Gran connestabile del regno di Napoli, situato in fondo sulla
destra.
Altri due blasoni compaiono nella decorazione quello del matrimonio di Michele Peretti con Margherita di Somaglia, nobile milanese avvenuto nel 1585 anno dell’elezione di Felice Peretti al soglio Pontificio, posto immediatamente sopra la porta d’ingresso e lo stemma del secondo matrimonio di Felice Orsina con Muzio Sforza nel 1595.
Altri elementi utili per la datazione sono individuati dalla presenza di feudi riconoscibili come la rappresentazione di Villa Grazioli a Grottaferrata presso Frascati che venne acquistata dal cardinale nel 1614 e poi in seguito donata al fratello Michele.
Le ragioni di un lasso di tempo così ampio, possono essere spiegate dalle condizioni di precarietà economica che la famiglia dovette affrontare immediatamente dopo la morte del pontefice, che di conseguenza ha allungato i tempi di realizzazione spiegando così anche le evidenti differenze stilistiche presenti all’interno del fregio. Opera collocabile per lo stile agli ultimi albori dello stile Manierista tipico della produzione sistina, ma anche molto vicino alla cultura decorativa civile sviluppata a Roma durate i pontificati di Clemente VIII e PaoloV. I Paesaggi e le vedute di grande qualità rappresentano i feudi appartenenti alla famiglia collocati accanto agli stemmi che le rappresentano: sono presenti il castello di Bracciano e le rispettive zone di caccia, la Veduta di Civita Castellana dalla porta da basso, ed in lontananza il ponte al Borghetto ed il Castello, vedute fluviali, scene di caccia, ville e castelli che ricordano nell’impianto e nei soggetti la tipologia esecutiva di Paul Brill e di Antonio Tempesta, due paesaggisti, a cui il papa spesso affidava la direzione dei suoi cantieri decorativi, ma diverse per l’esecuzione e per alcune cadute di stile.

Per quanto riguarda l’esecuzione dei putti, anche in questo caso le mani che hanno eseguito le figure sono molte e diverse anche cronologicamente.
Il rapporto del Cardinale con Civita Castellana è documentata fino al 1619, muore nel 1623. Il mancato completamento espresso dall’architettura ci lascia supporre che anche altre e diverse pitture avrebbero dovuto caratterizzare le stanze del palazzo, e sicuramente una maggiore presenza di pitture sarebbe stata molto utile per poterle ricondurre a dei nomi certi che purtroppo i documenti ancora non ci riportano. Dott.ssa Carlotta Nelli






Conferenza per l’Inaugurazione del restauro dell’Edicola devozionale di S. Anna, su via di Corte. Dott.ssa Carlotta Nelli

PREMESSA
Tante sono le edicole sacre, ne ho contate 35, che si possono incontrare percorrendo le vie del centro storico di Civita Castellana.
Di conseguenza la scelta di restringere il campo è stata quasi obbligata. A tal fine i ragionamenti che mi hanno portato a parlare si alcune piuttosto che di altre si è mossa su due linee, escludendo a priori la qualità delle opere, poi spiegherò il perchè, la scelta è ricaduta su quattro opere, due delle quali riprendevano il soggetto dei sant’Anna, e le altre due per la particolarità del genere.
ARTE POPOLARE
Le edicole devozionali, erette dalla pietà popolare, rappresentano l’esempio esplicito di come l’arte sia il riflesso della necessità della comunità, del quartiere e della famiglia, intriso di bisogni magico-religiosi. Se per arte intendiamo quindi, la risposta a bisogni e necessità, allora l’arte popolare, termine con cui si tende a descrivere manifestazioni come, appunto le edicole devozionali, non significa arte di secondo piano.Il termine nasce nell’Ottocento per esaltare quella produzione che scaturiva spontaneamente dall’anima popolare.
Il concetto di arte popolare e di conseguenza di “manifestazione spontanea”, o ethos collettivo determina quindi la produzione di questi manufatti che sono documento della collettività, portatrici non più di una committenza singola e di conseguenza di esaltazione della singolarità, ma vere e proprie opere d’arte del popolo e per il popolo.
Il carattere semplice e spesso seriale che contraddistingue gran parte della produzione non deve essere forviante nella descrizione e nella valutazione di queste opere.
L’arte devozionale, rappresentata dalle edicole, è ispirata culto ufficiale, ma rivive e si genera nel culto privato come il ringraziamento per la grazia ricevuta, che in già dall’ antichità rappresentava la comunicazione diretta dell’individuo con la divinità.

IL DIPINTO DI SANT’ANNA METTERZA NELLA CHIESA DI SAN GREGORIO XV sec.

Rappresenta la Madonna in trono con bambino e sant’Anna tra san Giovanni Evangelista e sant’Antonio abate; in alto probabilmente Dio padre benedicente tra nuvole e cherubini.
L’affresco si trova sulla parete sinistra, in simmetria con il frammento raffigurante Santa Caterina d’Alessandria.
La composizione presenta il tema di sant’Anna metterza, ma il volto di sant’Anna è mutilo, come quello di sant’Antonio e di gran parte della calotta del dipinto, nella quale, oltre ad alcune teste di cherubini, si distinguono i panneggi di altre due figure.
La zona pittorica residua rimanda all’ambiente umbro-romano dell’ultimo del ‘400. Interessanti ed accurate sono le grottesche sui pilastrini del trono, espressione di un aggiornamento della cultura dell’Antico che si elabora a Roma a partire del 1470.
Di richiamo pinturicchiesco sono i putti, mentre di ambito antoniazzesco le figure di San Giovanni e del cristo morto al di sotto, se pur con i volti allungati e una perdita della volumetria. Evidenti ridipinture di epoca imprecisabile.
Il gusto particolare della pittura risente del fervore che si stava muovendo in quel periodo grazie a pittori come Lorenzo da Viterbo e Antonio del Massaro detto il Pastura che lavorarono in gran parte della provincia. A questo ultimo facciamo risalire la diffusione del gusto Umbro di cui risente il dipinto.
L’artista collaboratore del Pinturicchio a Roma, nella decorazione degli appartamenti Borgia in Vaticano, nella capitale ha la possibiltà di approfondire la conoscenza di Antoniazzo degli Aquili.
Per poi essere nel 1497 ad Orvieto, per completare la decorazione del Duomo di Orvieto.

Al centro i soggetti principali si fondono in una unica massa volumetrica, che si collega attraverso i gesti, le mani di sant’Anna sulle spalle della vergine e le mani della vergine che sorreggono il bambino, e infine nelle mani del bambino il cardellino.
Comunicativo l’atteggiamento di questo ultimo, che con lo sguardo e con il gesto si rivolge direttamente al fedele, contrastando in maniera forte con la posa chiusa della vergine che inclina la testa.
Curva seguita anche dal capo del bambino. Per quanto in uno stato di conservazione non ottimo possiamo ancora scorgere la struttura del trono. Il quale si articola come una nicchia dagli angoli fortemente scorciati che alternano la cornice gialla con il colore verde dello schienale, per quanto casuale la presenza dei colori, anche in questo caso richiama la decorazione degli appartamenti borgia, così come la presenza di grottesche colorate, nello specifico mi riferisco alla visitazione della vergine negli appartamenti Borgia dei palazzi vaticani decorati dal Pinturicchio. L’intero complesso decorativo della chiesa porta la data del 1494 riportata in basso sull’affresco raffigurante Santa Caterina d’Alessandria. In concomitanza con la costruzione del forte San Gallo e della sua decorazione. Forse una maestranza al seguito?

L’EDICOLA DI SANT’ANNA SU VIA SAN GREGORIO XIX sec

Se l’iconografia della sant’Anna metterza si perde con la metà del 1500, il culto della santa non diminuisce così come le sue rappresentazioni che variano e attingono alle storie dell’infanzia della vergine, come la statuetta inserita all’interno dell’edicola su via San Gregorio appena dopo l’ingresso dell’ omonima chiesa. Questa rappresenta La madre che insegna a leggere il vangelo a Maria bambina, tale tema ha origine nel 1700 ripreso da Giovan Battista Tiepolo, nell’opera denominata l’educazione della Vergine del 1732 conservata a Venezia nella chiesa di Santa Maria della Consolazione.
Il tema semplificato è stato poi ripreso dalla statuaria artigianale e riprodotto serialmente. L’edicola di sant’Anna si completa con la decorazione della paretina interna eseguita da Oriana Bussani. La stoffa dipinta rappresenta un paesaggio con fiori ed alberi sullo sfondo. L’edicola a forma di archetto è decorata da racemi di rose e putti alati e realizzata in terracotta invetraiata. L’artista che realizzò la ceramica potrebbe essere individuato con Giulio Francesconi, La vicinanza stilistica dei putti, la qualità decorativa e la concordanza con le date: fatta realizzare intorno agli anni trenta da Cesare Basili (ce ne da memoria la figlia che ora 85enne rammenta come l’edicola sia stata edificata pochi anni prima del suo matrimonio avvenuto nel 1933.
Giulio Francesconi, originario di Viareggio, (la cui biografia è stata ricostruita dal prof Felini nel suo saggio e a quello rimando per approfondire), giunge a Civita Castellana dopo numerosi viaggi e permanenze in svariati luoghi italiani ed europei.
Di ritorno dalla Francia e dopo una breve sosta nella città natale e a Roma ed una sosta in Normandia, si trasferisce a Civita Castellana, spinto dal desiderio di realizzare opere in ceramica. Nella ceramica e qui cito: “il francesconi trova elementi primordiali da domare: la terra, l’acqua ed il fuoco, in una parossistica sfida con l’uomo”.
Tanto da riflettere all’interno di questa produzione le sue ansie psicologiche.
Le prime commissioni cittadine sono di carattere religioso: Realizza la statua di Mons Zuccherini, vescovo della città, e per la chiesa della SS.ma Vergine delle grazie due statue in gesso a grandezza naturale, Santa Chiara e Santa Paola. Ma l’opera che maggiormente ci interessa è la lunetta conservata nella Casa Canonica della Chiesa di San Benedetto.
Questa lunetta rappresenta la madonna con Bambino e cherubini, in terracotta invetriata policroma alla maniera dei Della Robbia, rielaborazione della Madonna del cuscino, eseguita nel 1495, e conservata al Bargello di Firenze. L’opera ci mostra come la cultura rinascimentale acquisita durante i primi viaggi abbia da subito, e lungo tutta la produzione dell’artista, influenzato la sua arte.
Le opere civitoniche sono tutte da inserire tra la fine degli anni 20 e l’inizio del 30. A confermare la paternità dell’opera giungono come dicevamo la data e la concordanza stilistica. Vediamo come ci sia evidente somiglianza tra i putti, con la particolare sporgenza delle guance, l’aggetto della fronte e non da poco, la qualità alta del manufatto.

L’EDICOLA DI PIAZZA DI MASSA XVI

L’edicola situata su piazza di Massa, piazza che si trova incardinata tra la via che conduce all’ingresso del Forte San Gallo e direttamente a lato della piazza del Duomo, su cui si affaccia Palazzo Petroni Andosilla uno dei più ampi e articolati edifici della città.
Databile al tardo cinquecento, l’edicola di piazza di Massa, detta Edicola della madonna della Neve, accoglie il passante in fondo alla via, venendo dalla piazza del comune. L’impianto decorativo si struttura come la fronte di un tempietto classico: Sulla mensola aggettante poggiano lesene con capitello dorico concluse con trabeazione spezzata, che culmina con il timpano, anch’esso spezzato, al cui centro troviamo la colomba, simbolo dello spirito santo, con le ali spianate, raggi di luce e nuvolette.
Dal recente restauro sono emersi: i colori originali della struttura architteonica esterna, che gioca sull’alternanza dell’ocra e del rosso porpureo e dei fori.

In questi fori, che corrono sia lungo le lesene interne che su quelle esterne e sui tondi al lato della cornice centrale, si inserivano le lucine che decoravano l’edicola, in occasione della Messa del 5 agosto, da cui prende il nome. La cornice centrale racchiude l’affresco raffigurante la Madonna con bambino, tra i santi Cristoforo e Sebastiano, quest’ultimo per la presenza più spostata e le mani giunte, non tipica dell’iconografia del santo che più tosto viene rappresentato in piedi addossato alla colonna del martirio, potrebbe essere individuato come ricordo del committente.
Infatti proprio durante il periodo controriformato, per non deviare l’attenzione dall’immagine sacra che doveva fungere non solo da tramite ma da fonte di ispirazione e di conoscenza per il fedele, era stato vietato l’inserimento del committente all’interno dell’opera. La soluzione fu di inserire un santo omonimo a suo ricordo.
Le figure principali: La Vergine ed il Bambino che regge il globo, simbolo del mondo sono il perno centrale su cui ruota l’intera rappresentazione, forti nella volumetria e nei panneggi, si addolciscono negli atteggiamenti.
La Vergine che guarda con amore il bambino, questo in segno di affetto contraccambia lo sguardo e si aggrappa al manto della madre. Per lo stile i colori e la manifattura possiamo notare come l’artista di buona mano sia influenzato dalla presenza di artisti di scuola romana che lavoravano tra i cantieri Farnese e Montalto sia a Civita Castellana che nella provincia. Ricordiamo che negli stessi anni il Cardinal Montalto stava fecendo decorare il suo palazzo, e che nel 1598 il Cardinale Aldobrandini governatore della città, accoglieva suo zio Clemente VIII nella fortezza Borgiana addobbata e sistemata per l’occasione. Stilisticamente vicino alla cultura ritrattistica controriformata di Scipione Pulzone, ma di carattere provinciale.

L’EDICOLA DEI MARTIRI SAN MARCIANO E GIOVANNI XVII

Si tratta di un bassorilevo con i Santi Martiri, Patroni della città. Questi sono rappresentati con i simboli del martirio quale la palma e la corona che gli viene posta sul capo dall’angelo.

La rappresentazione di Marciano e Giovanni è inserita in uno scudo marmoreo costruito da una pensilina semicircolare con cartiglio con i nomi dei santi. Da una cornice a fascia che gira intorno al bassorilievo sopra il quale è inserita una testa di cherubino e termina con una porzione di arco costruito con una serie di fasce. La particolarità dell’insieme lascia perplessi sulla probabile datazione, perchè se per l’andamento e le caratteristiche della struttura esterna ed anche per il luogo che occupa inserita infatti sulla facciata del palazzo Feroldi de Rosa potremo datare l’edicola al periodo tardo Barocco, ma per la manifattura del rilievo centrale, la datazione slitta di moltissimo.
I corpi schiacciati le fattezze dei volti duri e rozzamente abbozzate, il carattere arcaico di porre al centro l’angelo con i simboli del martirio, sembrano appartenere più al fronte di un sarcofago che alla produzione del tardo barocco, ma ricordiamo che le reliquie dei santi sono pervenute nella nostra città nel anno 1000. E non abbiamo nessun dato certo che non possa lasciarci ipotizzare la manifattura da parte di uno scalpellino non dotatissimo. Comunque nonostante la diversità e la lontananza cronologica di queste quattro opere che abbracciano quasi cinque secoli di storia, La loro funzione e la loro storia le avvicina e le rende uguali, portatrici cioè di quei valori di bisogno e necessità di cui parlavamo all’inizio. Simbolo della fede del popolo che attraverso le opere da esso volute si manifesta.

Un problema tutt’altro che risolto, Civita Castellana agli inizi del 1900. Patrizia Fantera

Per quanto un’amministrazione cittadina utilizzi risorse finanziarie, agenzie e strumenti efficienti nella gestione della raccolta dei rifiuti e della pulizia della città, il successo, in questo campo, è possibile solamente se entra in gioco la consapevole collaborazione dei cittadini. Ogni abitante dovrebbe riappropriarsi della propria città considerandola come la propria “casa” dove, ovviamente, non permetterebbe a nessuno di imbrattare o lasciare rifiuti od escrementi. Rinnovando tale senso di appartenenza alla propria città, non potrebbe non adottare quegli essenziali “comportamenti virtuosi” che contribuirebbero a mantenere maggiormente pulito l’ambiente urbano e fornirebbero un esempio concreto imitabile da parte delle nuove generazioni e da parte degli stranieri che sempre più numerosi popolano i centri storici dei nostri paesi. Non è raro sentir raccontare da quanti si sono recati in nazioni notoriamente famose per ordine e pulizia di essersi spontaneamente adeguati all’ambiente circostante trovando naturale evitare di gettare cartacce o mozziconi di sigarette per terra ad imitazione degli indigeni. È ancora vivo nel mio ricordo la visione delle donne del “vicinato” del centro storico di Civita Castellana che quasi giornalmente contribuivano a mantenere pulita la via scopando lo spazio antistante il “portone” o la porta della propria abitazione. Per non parlare del secchio dell’immondizia, di lucido alluminio, che ogni brava donna di casa, teneva moltissimo a mostrare pulitissimo, magari foderato di carta, allo “scopino” che lo prendeva ogni giorno dal gancio cui era appeso (per evitare l’assalto dei gatti) o lo staccava dalla corda con cui veniva calato dalle finestre più basse. Oggigiorno nessuno pretende che gli inquilini scendano ogni giorno per spazzare il tratto della via su cui si apre l'ingresso di casa, ma assumere comportamenti civili come, ad esempio, raccogliere gli escrementi dei cani che si accompagnano nella giornaliera passeggiata è un atto dovuto che contribuirebbe non poco a migliorare il decoro di una città che, a partire dal centro storico, lascia molto a desiderare. Il problema che ho posto sul tappeto non è né nuovo né facile da risolvere. Anche nel secolo passato gli amministratori di Civita Castellana hanno tentato di risolvere il problema della pulizia della città con strategie più o meno valide. Il Sindaco più “moderno” e lungimirante è stato sicuramente Ulderico Midossi che ha escogitato una “festa” per indurre i cittadini a collaborare fattivamente per raggiungere l’obiettivo di una città pulita e decorosa. Nel registro delle deliberazioni consiliari del 4 aprile 1910 leggiamo: Istituzione di festa : Il presidente espone che allo scopo precipuo di abituare ed incoraggiare i cittadini al rispetto dei regolamenti di pulizia urbana ed igiene; per educarli a non danneggiare ed a conservare le opere, gli edifici pubblici e privati per sviluppare in loro maggiormente e gradata- mente il sentimento del decoro della proprietà, della dignità, la Giunta ha pensato di istituire la Festa ad Igea, ossia la festa della salute in rapporto al modo di vivere, da solennizzarsi in un giorno festivo del mese di Maggio. Con essa si viene a domandare il concorso volenteroso ai cittadini, anziché con la minaccia di pene, con lo stimolo della ricompensa di un premio che stia a riconoscere come una determinata persona, una determinata collettività abbia meglio compreso e rispettato i doveri verso se stessa, verso la città, verso la società. Altrove si mettono in gara fra loro i cittadini per carte, per giuochi, noi invece li vogliamo mettere in gara per un fine utile, più nobile: per la migliore conservazione del loro essere, per la loro elevazione morale, per sradicare cattive abitudini, per combattere perniciose diffidenze, per vincere dannose resistenze a quanto si bandisce in nome della scienza, in nome del progresso civile. A qualcuno può sembrare azzardato l'esperimento e gli potrebbe sembrare più utile aumentare il numero delle guardie urbane, il numero degli spazzini; ma a parte la spesa maggiore, a parte che il sistema repressivo dà per lo più scarsi risultati, perché non dobbiamo non tentare quello che è in uso, e con fortuna presso popoli e città progredite? Perché non dobbiamo tentare di sviluppare l'educazione cittadina con blandizie anziché con lo spauracchio di contravvenzioni e fare in modo che gradatamente entri nelle abitudini di tutti quello che oggi si trascura come una cosa non necessaria? Molti sono gl'insegnamenti che si danno nelle scuole ai piccoli, di tenere pulita la propria persona, le proprie cose, di non sporcare le vie, di non imbrattare le mura, di non arrecar danni agli edifici, agli alberi, ai giardini ecc, ma il più delle volte gli insegnamenti nelle scuole rimangono. Ebbene noi desideriamo fare propaganda al di fuori di essa, non solo tra i piccoli, ma anche tra i grandi, stimolando il loro amor proprio, solleticando il loro orgoglio. Se mediante il concorso di tutti quelli che amano la propria città , si potesse giungere a questo risultato, non vi è chi non vegga quanto se ne avvantaggerebbe l'igiene, il decoro ed anche il bilancio Comunale. Un semplice appello che richiamasse i cittadini all'osservanza dei regolamenti d'igiene e di polizia urbana sia pure con la consequenziale applicazione di multe, l'esperienza ci insegna che rimarrebbe inascoltato: invitiamoli dunque con la promessa di un premio = Per sviluppare l'agricoltura, per dare incremento ai commerci, alle industrie, per favorire gli studi é già in uso questo mezzo con risultati sempre più incoraggianti, e perché altrettanto non si deve tentare per migliorare una branca così importante dei pubblici servizi? A tal fine la Giunta propone di dividere la città in quatto rioni e secondo norme da stabilirsi; il rione nel quale durante l'anno si sarà constatato il minor numero di contravvenzioni ai regolamenti di polizia urbana e di igiene, sarà assegnato per premi da sorteggiarsi fra tutte le famiglie di cui esso si compone, ed insieme gli verrà consegnato un pallio che sarà dato in consegna fino al successivo anno alla fanciulla alunna della 1 classe elementare che, oltre ad essere studiosa, avrà dimostrato attitudine di buona massaia. Un premio sarà dato in ogni rione al piccolo proprietario che avrà costruito o riadattato la propria casa secondo norme d'igiene; ed un premio al negoziante di commestibili che il negozio terrà ben pulito e che venderà generi salubri. I premi saranno distribuiti con grande solennità nel municipio dove saranno tenute anche conferenze popolari di propaganda sopra argomenti inerenti alla festa. Ecco perchè, invece di aumentare lo stanziamento per le guardie urbane e la nettezza urbana la giunta propone al Consiglio di aumentare di £ 400 per lo scopo suddetto il fondo attualmente stanziato per il risanamento igienico dell'abitato. Il consiglio vota per fissare la data della festa al 1 di maggio. Patrizia Fantera, Presidente AGER FALISCUS